Le nostre ali, le fanfiction per il nono anniversario del forum

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view post Posted on 13/10/2018, 11:29
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The acid Queen in a psychedelic scene

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Ed ecco a voi la discussione in cui postare i lavori per il nono anniversario del XIII Order Forum

Per il regolamento dell'iniziativa vi invito a visitare nuovamente la discussione in Area Grigia. Qui ci limiteremo a raccogliere le varie fanfic.


Un sorteggiatore casuale di nomi (per gli interessati visitare il sito random.org) ha decretato l'ordine dei vari Superiori nei mesi a venire.

13 Ottobre - 12 Novembre: RoxasXIII95
13 Novembre - 12 Dicembre: whitemushroom
13 Dicembre - 12 Gennaio: Anthima Onyx
13 Gennaio - 12 Febbraio: Lisaralin
13 Febbraio- 12 Marzo: ValyxVI
13 Marzo - 12 Aprile: I.H.V.E.
13 Aprile - 12 Maggio: eryk99
13 Maggio - 12 Giugno: DanieldervUniverse
13 Giugno -12 Luglio: Pepper Snixx Heat


Se dovessi aver dimenticato qualcuno segnalatelo in questa discussione ;)


Recupero l'occasione per ringraziare tutti voi che ci state seguendo e partecipate alle nostre iniziative, ed auguro a tutti i partecipanti un buon nono anniversario in compagnia del XIII Order Forum!

Che la gara inizi ed un augurone di buona fortuna a tutti! :jumpmarl: :jumpmarl:

Edited by DanieldervUniverse - 13/7/2019, 00:03
 
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view post Posted on 13/10/2018, 12:30
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Grande, Grosso e Rosso

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Forza Roxas, libera la SOVIET UNION che è in te.
No aspetta, per te sarebbe deleterio.
Allora, qualcosa che non ti nuocia... ah sì.

LIBERA LA TUA IMMAGINAZIONE!
 
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view post Posted on 13/10/2018, 14:19
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L'Uomo Citazione

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Oh, tocca a me aprire?
Dannazione, non ero preparato a questo! Ehm, ehm, uhm...
Beh, visto che allo scorso Contest ho proposto un tema allegro, immagino che quest'anno dovrò proporre qualcosa di contrario. Quindi il tema è:

"Perché mi hai abbandonato, padre?"


Ovviamente, potete anche sostituire madre a padre, come più vi aggrada.
 
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view post Posted on 13/10/2018, 15:06
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The acid Queen in a psychedelic scene

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Ti giuro Roxo, la prima cosa che mi è venuta in mente leggendo il tuo tema è stato Gesù che esclama (non ricordo bene in che momento della Passione): "Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?" XD
 
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view post Posted on 18/10/2018, 23:46
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Cecchino

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Ok, visto che nessuno scrive niente, ci penserà la vostra amata Lady a rompere il ghiaccio!


How could you?!





FANDOM: Disney ---> "Aladdin" e "Disney Descendants"
GENERE: AU, Narrativo, Drammatico
RATING: verde

PERSONAGGI:
-Jafar: il malefico gran visir del mondo di Aladdin che tutti conosciamo.
-Jay: figlio di Jafar; nell'universo di "Disney: Descendants" è un ragazzo forte, ribelle, atletico, eccellente nello sport, amato dalle ragazze, ma è anche molto premuroso e protettivo nei confronti dei suoi amici. E' un abile ladro, come Aladdin, ma ruba per riempire gli scaffali del negozio del padre. Nel mio, di universo, il vero nome di Jay è Jahid, ed è il figlio indesiderato di Jafar e la sua concubina Nadwa. Fin dalla più tenera età, è il migliore amico di Jasmine, per lui quasi come una sorella maggiore. Anche lui odia la vita di palazzo, arrivando ad ammirare un noto ladruncolo, per le guardie, di nome Aladdin, per lui e Jasmine il simbolo della libertà. Tuttavia, un orribile incidente cambierà la sua vita...


------------------------


Jafar sospirò di nuovo.
Potere…
Era tutto ciò cui ambiva.
Finalmente poteva ottenerlo. Il potere assoluto.
Il potere di piegare persino le persone al suo volere.
Finalmente poteva essere più di uno stupido gran visir.
Tuttavia, c’era un prezzo da pagare.
Secondo l’individuo che aveva di fronte, un tale che diceva di chiamarsi Xehanort, per ottenere il potere che voleva, doveva rinunciare a qualcosa.
Il potere che chiedeva era praticamente l’Oscurità stessa. Quindi doveva rinunciare agli ultimi barlumi di luce nel suo cuore per cedere ad essa.
Ma il suo sospiro non era di preoccupazione. Era un sospiro di una persona seccata, annoiata.
-Rinunciare alla luce, dici?- domandò a Xehanort, abbassando un sopracciglio, scettico.
Dall’interno del cappuccio, Xehanort sorrise in modo malvagio.
-Esatto. E’ l’unico modo se vuoi cedere all’Oscurità e se vuoi essere più forte. Liberarti delle persone cui tieni più di ogni altra cosa.-
-Davvero interessante.- tagliò corto Jafar, sarcastico, accompagnandolo con il gesto del dito –Ma c’è un piccolo problema. Io non tengo a nessuno, se non alla mia carica.-
-Dici sul serio? Proprio a nessuno nessuno?-
Il tono era irritante e provocatorio, tale da farlo innervosire.
Se avesse avuto da subito il suo potere, lo avrebbe incenerito senza pensarci due volte.
Ma Jafar rifletté. Se fosse stato davvero come affermava, allora perché non sentiva il potere scorrergli nelle vene? Che fosse…?
-Se davvero non avessi la luce nel tuo cuore, allora come spiegheresti la tua mancanza di poteri, Jafar?-
Purtroppo sapeva bene la risposta: non aveva una luce, ma due. Fievoli, quasi spente, ma pur sempre barlumi di luce. Le uniche due persone cui teneva.
Si morse entrambe le labbra, ma senza provare frustrazione, piuttosto curiosità.
-Quindi cosa dovrei fare, vecchio?- domandò, sempre più seccato -Uno di loro è mio figlio.-
Uno degli occhi dorati di Xehanort lo fissò minaccioso.
-Se non sei disposto a rinunciare a qualcosa, allora non meriti il potere dell’Oscurità! Cosa intendi fare di quelle due persone, non è affar mio. Non sei obbligato ad ucciderli. Ho detto che ti devi liberare di chi ti impedisce di cedere all’Oscurità, non di eliminarli.-
Jafar gli rivolse uno sguardo freddo, senza sentimenti, eppure determinato.


Era ormai una settimana che Nadwa, una delle concubine del palazzo, era scomparsa. Vaporizzata. Svanita nel nulla. Come se non fosse mai esistita.
Suo figlio Jahid, di soli dieci anni, era sempre più inconsolabile. La principessa Jasmine, appena dodicenne, tentava in tutti i modi per rassicurarlo, confortarlo.
Ma sembrava non bastare.
Il piccolo Jahid piangeva sulla spalla della principessa.
-Oh, Jahid, mi dispiace tanto…- si limitava a dire lei. Poi non diceva altro. Temeva che frasi come “Devi farti forza” potessero turbarlo sempre di più, anziché fargli risollevare il morale. Si limitava ad abbracciarlo, accarezzarlo. Proprio come una sorella maggiore.
Era l’unica a compatirlo davvero, essendo anche lei orfana di madre. Le altre concubine gli rivolgevano solo dei freddi “Era una brava donna”, “Vedrai che tornerà” o frasi simili.
In quel momento, la porta si aprì: Jafar. Di nuovo Jafar.
-Perdonate principessa…- salutò, scusandosi; il suo sguardo era di pietra, e il suo tono privo di alcun sentimento –Devo conferire con mio figlio.-
A Jasmine non era mai piaciuto Jafar. Era anche il gran visir, il consigliere principale di suo padre, ma non gli ispirava fiducia. Già dall’inizio, sospettava che ambisse ad altro.
Osservò il bambino, ancora tra le sue braccia.
-Magari dopo giochiamo con Raja, che ne dici?- propose, con un dolce sorriso.
Egli le sorrise per un secondo, prima di tornare triste.
-Jahid, vieni.- gli ordinò Jafar, con fermezza e freddezza. Non certo con l’affetto di un padre.
Tirando su con il naso, Jahid si staccò dalle mani di Jasmine, avvicinandosi alla porta.
Seguì il padre fino alle segrete. Non era la prima volta che scendeva laggiù.
Quel luogo incuteva timore. Così oscuro, freddo…
Non gli piaceva.
Nella sua oscurità e freddezza, era esattamente la rappresentazione del padre; non aveva nemmeno mostrato segni di turbamento alla scomparsa di Nadwa.
Jafar si fermò proprio in mezzo alla stanza.
-Avvicinati, Jahid.-
Il bambino, con passo insicuro, prese posto accanto a lui.
-Tu sai qual è la cosa a cui tengo di più, non è vero?- domandò, quasi a bruciapelo, senza guardare il figlio negli occhi.
Jahid annuì, deglutendo. Ormai la bocca era divenuta secca. Anche la vista di suo padre gli provocava timore.
-La tua carica.- disse, con un filo di voce.
-Esatto, figliolo.- prese a camminare, lentamente, dietro il figlio, che era come paralizzato, intento a fissare le mattonelle del pavimento –La mia carica di gran visir… è la cosa più importante della mia vita, che intendo conservare il più a lungo possibile.-
Si fermò di nuovo.
-Ma questo non mi basta. Sarò pure la persona più importante del regno, dopo il sultano, ma non mi basta. Io voglio il potere. Quello che non svanisce mai. E sai una cosa, figliolo? Ora so come ottenerlo!-
Jahid si voltò di scatto verso Jafar, fingendosi entusiasta. O forse lo era davvero. Dopotutto, da bambini crediamo sempre che i propri genitori siano dèi, li amano, li venerano, credono che abbiano sempre ragione su ogni argomento. Jahid temeva suo padre, ma nello stesso tempo, non sapeva perché, lo venerava.
-Tuttavia…- quella singola parola e l’occhiata fredda di Jafar fecero svanire il sorriso di Jahid –Ci sono ancora degli ostacoli, che mi stanno impedendo di ottenere quel potere.-
Il bambino era confuso, ma già immaginava a cosa si riferisse.
-Tu.-
Conficcato tra due mattonelle, vi era una particolare pietra rossa, che si illuminò.
Da quel punto, si estese gradualmente un portale, sotto forma di sabbie mobili. Girava intorno a se stesso, a spirale.
Il bordo quasi sfiorò i piedi di Jahid. Perse l’equilibrio, barcollando all’indietro. Si aggrappò ad una manica della tunica del padre, per non cadere.
-NO! PADRE! TI PREGO!- supplicò, quasi piangendo –NON MANDARMI VIA!-
-Devo, Jahid.- ribatté, freddo, Jafar –Se tu rimani qui, sarò solo un patetico gran visir. Devo rinunciare a te, se voglio essere di più. Mi sono liberato di tua madre e il fatto che ti stia mandando in un altro mondo, anziché prendere la tua vita, è un chiaro segno che sono ancora debole e che, in un modo o nell’altro, tengo a te. Ma esiliarti in un altro mondo è come se fossi morto, per me. Mi basterà dimenticarti e il gioco è fatto. Io non sono stato fatto per essere tuo padre. Troppe responsabilità e, soprattutto, troppo AMORE. Non la prendere sul personale. Addio, Jahid!-
Diede uno strattone al braccio e Jahid, alla fine, cadde.
L’ultima cosa che vide, prima di essere inghiottito da quel portale, era il volto freddo di suo padre.


-Jay! Jay!-
Aprì gli occhi di scatto.
Sentiva una mano fargli pressione sul petto: Carlos. Di nuovo Carlos.
-Scusa se ti ho svegliato. Ti stavi di nuovo lamentando nel sonno…-
Jahid si mise seduto sul letto, strofinandosi gli occhi. Rudy saltò sul suo letto, avvicinandosi al suo grembo.
Come risposta, gli grattò sotto il mento. Il cane socchiuse gli occhi.
-Di nuovo quell’incubo?-
-Tutte le notti. E’ una maledizione.-
Il ragazzo albino e dalla ricrescita nera storse la bocca. Sapeva benissimo a cosa si riferiva.
-Beh, ora che sei sveglio…- tagliò corto, cambiando argomento e riprendendo Rudy in braccio –Gli altri sono giù che ci stanno aspettando. Preparati pure con calma, ma non metterci troppo, altrimenti rischiamo di arrivare troppo tardi. A dopo!-
Si alzò non appena Carlos lasciò la stanza.
La prima cosa che fece fu entrare in bagno. Mentre si lavava il volto, si guardò allo specchio: pelle color nocciola, occhi neri lievemente a mandorla, bruni capelli lunghi che gli cadevano sul petto, naso a punta e volto ovale.
Assomigliava molto a sua madre. La sua immagine era tutto ciò che gli rimaneva di lei.
Non aveva nulla in lui che lo facesse assomigliare a suo padre Jafar.
Erano passati sette anni da quando lo aveva “esiliato”.
Il portale lo aveva condotto in un luogo chiamato Auradon. Ivi, una donna, una fata, con precisione, era accorsa in suo aiuto, offrendosi di accudirlo fino a quando non avrebbe raggiunto l’età giusta per l’indipendenza.
Dal primo momento in cui aveva messo piede ad Auradon, aveva deciso di farsi chiamare “Jay”, per non ricordarsi più di Aghrabah o di suo padre. Solo i suoi migliori amici Mal, Evie, Carlos e Ulrich sapevano il suo vero nome, ma lo chiamavano ugualmente “Jay”.
Ma ogni notte, il ricordo dell’abbandono di suo padre si tramutava in incubo, dilaniandolo interiormente pezzo per pezzo.
Ogni giorno, al suo risveglio, piangeva. Quell’esperienza lo aveva cambiato dentro. Il suo cuore si era letteralmente spezzato. Si era reso conto di essere ormai orfano.
Ogni giorno malediceva l’uomo che chiamava “padre”.
Per colpa sua odiava persino Aghrabah. Ma grazie a piccole, stupide cose, ma belle, sentiva anche una forte nostalgia per la sua casa natia: il profumo di sua madre, i datteri sui tavoli dei ricevimenti e i momenti di svago con Jasmine. Sentiva spesso la sua mancanza. Ogni notte, prima di addormentarsi, pregava Allah affinché la proteggesse, che non le accadesse nulla di male. Essendo figlio del gran visir, aveva il permesso di entrare in alcune stanze, che si divertiva ad esplorare con la principessa, o entrare liberamente nella sala del trono. Persino il Sultano lo amava come fosse figlio suo.
Ma per colpa di Jafar, tutto era perduto.
-Come hai potuto?!- esclamò, stringendo un pugno, alimentato dalla rabbia e dall’odio –Come hai potuto scegliere il potere a me?! A mia madre?! Come hai potuto abbandonarmi?! CI HAI TRATTATO COME OGGETTI, COME MERCE DI SCAMBIO! TANTO VALEVA CHE NON NASCESSI!-
Scagliò con forza il pugno sullo specchio del bagno. Questo si frantumò.
Jahid sentì un forte dolore sulla mano: il palmo sanguinava.
-Santo cielo!- disse, allarmato; l’ira lo aveva reso cieco e privato di ogni ragione. Prese diversi fogli di carta igienica, cercando di fermare il flusso di sangue.


In quegli stessi giorni, nel mondo di Aghrabah, Jafar venne definitivamente sconfitto da Aladdin, Jasmine, il Genio e Iago.
Ma non bastò ad eliminarlo del tutto…
 
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view post Posted on 23/10/2018, 03:15
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Il signore dei biscotti

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CITAZIONE
Nel mio, di universo, il vero nome di Jay è Jahid, ed è il figlio indesiderato di Jafar e la sua concubina Nadwa.

Questo mi ha incuriosito: si tratta di un AU di tua invenzione basato, però, su un universo già esistente, giusto?
Cosa ti ha portato a scegliere questa tua personale versione invece di quella originale?
Riflette il tuo punto di vista in qualche modo?

Oh, e vedo che la hai ricollegata a Kingdom Hearts. Un tocco di Xehanort non guasta mai.
Nella tua storia, Jafar rinuncia persino al figlio pur di ottenere il potere: peccato non vedere traccia di questo pentimento neppure alla sua fine.


Dunque, comincio anche io il contest partendo con qualcosa di più classico, ma che mi sta molto a cuore.
Si tratta di un fandom che ho scoperto solo di recente, e vedendo il tema proposto il collegamento è stato immediato. E' una storia che mi ha lasciato qualcosa di prezioso, e spero possa fare lo stesso con voi.


- - - - -



1° Mese



Tomoya & Ushio





Personaggi:
Tomoya Okazaki: La vita di Tomoya assume una svolta improvvisa nel momento in cui conosce Nagisa, una ragazza timida ma di buon cuore. Il rapporto tra i due si evolve e culmina con un amore profondo e reciproco, il quale non si estingue nemmeno dopo la morte di lei. Perdendo la moglie durante il parto, Tomoya cade in depressione e si allontana dai suoi doveri di genitore, sopraffatto dal dolore.

Ushio Okazaki: Venuta al mondo senza mai aver conosciuto la madre e con un padre distaccato, Ushio è stata cresciuta dai nonni materni: Akio e Sanae. Di soli cinque anni, è una bambina docile che assomiglia enormemente alla madre, sia fisicamente che a livello caratteriale; a volte anche troppo, tanto da suscitare in chi le sta attorno una sensazione nostalgica.

Fandom: Clannad
Rating: Verde


Un piccolo dango sotto la neve





Ha iniziato a nevicare.
Osservo il mio respiro condensato dall'aria gelida sulla finestra della cucina, assistendo al lento formarsi di quel manto bianco che presto ricoprirà ogni angolo del panorama di questa maledetta città.
E mentre ipotizzo come la maggior parte della gente abbia già iniziato a pregustare come trascorrere la mattina a giocare all'aperto, io mi chiedo attraverso quanti millimetri di neve dovrò farmi strada per andare al lavoro, domani mattina.
Emetto una smorfia disgustata, abbasso la tapparella, e per sicurezza chiudo anche le tende. Non mi è mai piaciuta la neve.
Troppi pochi motivi per apprezzarla e troppi per non poterla neanche lontanamente vedere.
E' già da qualche settimana che ho tirato fuori le trapunte e le coperte pesanti per non trovarmi impreparato a combattere il gelo invernale.
La temperatura della casa è mitigata e ho fatto in modo da tenere a bada gli spifferi; inoltre, ho fatto il pieno di farmaci e medicine per qualunque evenienza.
Sì, quest'inverno non voglio sentire neanche uno starnuto.
Faccio per spegnere la luce e prepararmi per la notte, quando un lieve scalpitare di passi dalla stanza a fianco mi fa comprendere che le mansioni non sono ancora concluse.
Controllo l'orario; siamo ben oltre il tempo consentito per stare svegli.
Se non è per un ottimo motivo, mi sentirà.
Mi affaccio sul corridoio, attendendo silenziosamente che trascorressero alcuni secondi; a giudicare dal fatto che la porta della sua stanza non si è aperta, ne deduco che non è dovuta andare in bagno, né è stata colta da un incubo o qualche malore.
Sospiro, grattandomi nervosamente la fronte.
Ero certo di essere stato chiaro, e non amo ripetermi.
Mi avvicino di soppiatto, e poi spalanco la porta con un unico movimento osservando la scena che mi palesavo.
Un paio di piccoli occhi castani si voltano verso di me, contratti in un'espressione chiaramente colpevole. Vedo che almeno se ne rende conto.
- Ushio, cosa ci fai in piedi? - le domando, perentorio - Va subito a letto -
Lei esita prima di rispondermi, e preferisce semplicemente gesticolare con il dito verso un punto imprecisato della finestra.
In effetti noto di averla sorpresa in punta di piedi proprio davanti al vetro che dà sul cortile, come se si stesse sporgendo nel tentativo disperato di cercare qualcosa.
- ...papà! - esclama lei, con la sua vocina squillante - La neve! -
Rimango per un momento perplesso, notando le sue pupille brillare di fronte al massiccio nevischio.
Certo, immagino sia ovvio per la sua età: possiede degli occhi ancora innocenti che vogliono solo scoprire il mondo attorno a sé, che si meravigliano ad ogni esperienza.
Un continuo mostrare stupore anche per le cose più banali, un'imperterrita sete di conoscenza e curiosità che con la crescita andiamo perdendo; invidio quelle sensazioni.
E' da tempo che ho dimenticato che cosa vuol dire osservare qualcosa di bello senza che vi fosse un ricordo orrendo dietro a rovinarne l'immagine.
Deve essere piacevole non avere un passato a cui riaffacciarsi.
Ma ora come ora non è il momento né dei sentimentalismi né delle battaglie a palle di neve; la afferro dalle ascelle e la riporto a letto, serrando la persiana dietro lo sguardo sconsolato di Ushio.
- Ma... la neve...! - protesta debolmente.
- E' tardi. E' ora di dormire, non di guardare il panorama - asserisco, rimboccandole le coperte per la seconda volta - Domani potrai andare a giocare fuori, va bene? -
- Con Akki? -
- Sì, con Akki - mi tocca assecondare momentaneamente le sue richieste se voglio che se ne stia buona. Spero solo che Akio abbia abbastanza tempo libero, domattina.
La mia risposta sembra soddisfarla abbastanza, poiché acconsente a rimettersi sotto il lenzuolo senza fare storie. Fortuna vuole che sia una bambina ubbidiente, il più delle volte.
Ma la conosco fin troppo bene; abbiamo appena cominciato.
Il rito per far addormentare Ushio è lungo e travagliato, e non è raro che mi spazientisca anche per delle piccolezze nelle giornate più faticose.
- Papà, non ti piace la neve? - mi chiede a bruciapelo.
La fisso con aria curiosa; non ha l'età per fare domande complesse, ma è comunque notevole che a cinque anni possa formulare quesiti introspettivi.
- No, non mi piace -
- Perché? -
Ecco, la domanda da un milione di yen. Ho passato anni a torturarmi dietro il ricordo di quella fatidica notte bianca; credo che il fatto che io la disprezzi sia davvero il minimo.
Ma non intendo rendere partecipe Ushio di certe cose. Non è il momento; ha il diritto di vivere la sua infanzia senza questo spettro.
Giungerà il momento in cui la verità la farà soffrire, ma non oggi. Non ora.
- Perché è fredda e fa ammalare - le dico sbrigativamente.
- Sei ammalato? -
- No, ma potrebbe accadere. E succederà anche a te, se non ti copri bene durante il sonno -
Sembra che la minaccia di un possibile raffreddore la abbia spaventata a dovere, poiché si è nascosta ancora di più sotto la coperta.
Non tanto per la malattia in sé, ma perché sa che, in quel caso, non potrebbe giocare nella neve.
L'ingenuità genuina e pura dei bambini ha un che di confortante, a volte.
- Papà - la sua vocina mi sorprende nei miei pensieri - Che cos'è un termometro? -
Sembra che il questionario di Ushio non sia ancora terminato. Stavolta è passata all'etimologia; un'altra sua passione.
- E' una cosa che indica se fa caldo o freddo - le rispondo, tentando di semplificare le parole il più possibile - Come mai me lo chiedi? -
- Lo ha detto Sanae -
Certo, immagino abbia senso. Sanae è una nonna fin troppo premurosa per non prendere in considerazione una febbre invernale.
Ushio deve averla sentita parlarne, e per riflesso la parola le è rimasta in testa.
- Papà - mi richiama lei.
Prevedo un'altra domanda a titolo informativo. Spero davvero che la stanchezza la colga al più presto, o nemmeno io reggerò per molto.
- Dimmi -
- Che cos'è un gatto delle nevi? -
Santo cielo, questa è tosta. E ho il sospetto di sapere a chi attribuire questo imprevisto.
- Dove lo hai sentito? -
- Lo ha detto Akki -
Ecco, tombola. Quel vecchio deve aver di nuovo fantasticato in modo pomposo su un'eventuale settimana bianca in montagna.
Ma ciò che mi preoccupa è la possibilità che nella testa di Ushio si sia formata l'idea di un improbabile felino d'alta quota.
Farei meglio a togliermi il dubbio, ma come fare per spiegare ad una bambina di quell'età il modo in cui funziona un cingolato che spala neve?
- Dunque... è una macchina che... - tentenno brevemente - ...che trasporta le persone sulla neve -
- Ooh...! - il suo sospiro di meraviglia è piuttosto sonoro - Tu guidi un gatto delle nevi? -
- No. Ma forse Akki lo sa fare - le racconto, colto da un'idea diabolica.
Beccati questa, Akio. Ora tocca a te inventare un modo per uscirne.
L'idea sembra quasi divertirla, poiché inizia a ridere di gusto.
Siamo quasi al termine; vedo le sue palpebre appesantirsi lentamente. Sarà questione di minuti prima che si addormenti del tutto.
Magari se le resto di fianco, in silenzio, rimarrà tranquilla senza fare altre domande.
- Papà... -
Ho cantato vittoria troppo presto. Come sempre.
- Dimmi - sbuffo io, chiedendomi quale altra stramba definizione possa averle inculcato Akio con la sua lunga linguaccia.
- Che cos'è un abbandono? -
Mi paralizzo per un istante.
Forse ho sentito male, o forse la stanchezza mi ha fatto capire un concetto per un altro.
In ogni caso, sento istintivamente la necessità di risentire la domanda.
- Come...? Come hai detto, scusa? -
- Che cos'è un abbandono? -
No, non avevo interpretato male.
Che razza di domanda. E ho quasi paura a chiederle delucidazioni.
- ...dove lo hai sentito? -
- Lo hanno detto Sanae e Akki - risponde, con la massima, innocente sincerità.
Avrei dovuto supporlo. Non ho un contesto, ma posso immaginare di cosa stessero parlando.
Sono passati cinque anni da quando ho iniziato a prendere le distanze da mia figlia. Dopo il parto, sono stati Sanae e Akio a prendersi cura di lei; non posso di certo biasimarli se non hanno un'altissima opinione del sottoscritto.
Ho passato il mio tempo a non fare niente, a vivere un'esistenza vuota e priva di scopo, in completa solitudine.
Cinque anni completamente bruciati, gettati al vento; come se non fossero mai esistiti.
Conosco un buon numero di persone che mi sgriderebbero pesantemente se sapessero che razza di genitore sono stato, ma... non potevo.
Semplicemente non potevo farcela. Non dopo la sua scomparsa, non in quel modo.
Era come se l'unico fattore che teneva in piedi i pezzi sparsi della mia vita fosse sparito di colpo, lasciandomi alla deriva nel mio disordine.
Nagisa morì dando alla luce Ushio in quella dannata notte innevata; mi ha lasciato con una bambina che le è identica in quasi tutto: aspetto, carattere, pregi e difetti.
Più ci penso, più mi viene da impazzire; le somiglia così tanto, tantissimo. Troppo.
Ogni suo gesto, ogni parola, mi rimanda a lei. A quei giorni. A quella vita.
E io ho codardamente deciso di annegare il mio dolore nel silenzio e nella solitudine, facendo gravare il peso su chi mi era vicino.
E' un errore a cui non potrò mai porre rimedio, nemmeno volendolo con tutto me stesso.
- ...è quando lasci indietro qualcuno - le rispondo, con voce fredda - Quando te ne vai via, e... smetti di pensare a qualcuno: vuol dire che lo hai abbandonato -
Il suo sguardo corrucciato mi indica che ha capito che non si tratta di una cosa piacevole.
- Quando smetti di... pensare a qualcuno? - è chiaro che sta ancora cercando di fare luce su questa strana nozione.
- Esatto. Come ho fatto io... -
- Tu? Hai abbandonato qualcuno? -
- Sì - deglutisco a fatica.
- Perché? -
Ancora una volta riesce a spiazzarmi in modo plateale.
Già: "perché"? Una domanda che vuol dire tutto e non vuol dire niente. Una semplice parola che nasconde alle proprie spalle infinite risposte e sfaccettature varie.
Come può essere così complicato rispondere ad un quesito così breve?
Come fai a dire a tua figlia che la hai abbandonata per un motivo?
Non credo troverò mai le parole giuste da dirle, neanche quando sarà abbastanza grande da capire che si tratta di lei.
Che lei è la persona che ho ingiustamente abbandonato a causa di un dolore inutile, di un fantasma dal passato.
- Papà -
Mi chiama ancora una volta, e di nuovo mi coglie alla sprovvista. Ma, stavolta, in modo diverso.
Sento la sua piccola mano stringere la mia, sudata e tremante, come a tentare di calmarmi.
Come se stesse avvertendo che non sono di buon umore e stia provando a darmi sostegno.
Glielo leggo negli occhi castani, anch'essi eredità della madre: non ha idea di cosa io stia pensando, provando, o dicendo. Sa solo che sono triste.
E quella morbida stretta delle sue minuscole dita è il suo tentativo di fare breccia.
Sospiro; le passo le mani tra i capelli, carezzandola dolcemente.
- Dimmi, Ushio -
- Mi canti la canzone della mamma? -
Ah, ecco un'altra richiesta che mi riporta indietro nel tempo, a quel periodo più felice.
La "canzone della mamma", certo. Sanae deve avergliela cantata per mantenere vivo il ricordo di ciò che Nagisa più amava.
Una cantilena infantile, smielata, ma a tratti anche malinconica.
Se mi concentro, riesco ancora a sentire la voce di Nagisa che ne intonava il motivetto.

"Dango, dango, dango, dango, la grande famiglia dango..."

Le parole mi escono quasi spontanee, come fossero guidate dall'istinto. Eppure non la sentivo da così tanti anni.
Ushio accompagna il mio canto con un mormorio soddisfatto.
Non c'è da sorprendersi che quei piccoli affari rotondi piacciano anche a lei; a dirla tutta, credo siano il tratto distintivo di questa famiglia.

"Un birichino dango fritto, e un gentile dango ai fagioli dolci...
Se li mettessimo assieme, formerebbero una famiglia di cento...
"

Sì, lo ricordo. Nagisa li disegnava ovunque, accompagnando i suoi scarabocchi con questa cantilena.
Che fosse felice, che fosse triste, era sempre il momento della grande famiglia dango.
Certo, io preferivo che la cantasse col sorriso.

"Il piccolo dango sorride ed è sempre cullato da tanta felicità.
E il dango anziano, con sguardo accigliato, si immerge nei ricordi
"

Con quella strofa, accompagna definitivamente Ushio nel mondo dei sogni. Che si addormenti con serenità in volto, lo comprendo solo ora, è la mia conquista più grande.
Forse un giorno mi perdonerai, Ushio. Forse mi perdonerai per averti messa da parte.
O forse coverai rancore nei miei confronti, oppure ci riderai sopra come se fosse un evento troppo vecchio per darci importanza.
Starà a te decidere.
Fino a quel momento, fa sogni d'oro.

"E se tutti imparassero a tenersi per mano, come la famiglia dango, comprenderebbero l'amore.
Ora, la piccola città dei dango è divenuta il meraviglioso mondo che sognavo.
Oltre il cielo stellato, i conigli sulla luna sorridono e li salutano.
Le cose belle della vita, le cose brutte... arrotondale tutte
"





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Edited by ValyxVI - 24/10/2018, 21:51
 
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The acid Queen in a psychedelic scene

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@I.V.H.E. : non ho visto Descendants: confesso che non mi attira molto, mi sembra il tipico prodotto a target adolescenziale che mi avrebbe infastidito già da adolescente (ma perché i cattivi Disney devono per forza avere dei figli?). Però mi è piaciuto molto come hai legato il suo universo con quello canonico del film Aladdin, dando anche una spiegazione plausibile per il nome Jay, che è molto più americano che arabo come dovrebbe. Tocco di classe anche l'inserimento di Xehanort, lui non può mai mancare! La madre di Jahid è un personaggio completamente di tua invenzione o è ripreso da Descendants?

@Val: storia tenerissima <3 Il padre mi ispira molta simpatia malgrado i suoi limiti e i suoi errori: si vede che, pur nella sua disperazione, resta sempre una persona di cuore. Sono riuscita a immedesimarmi in lui e a comprendere le sue ragioni. Immagino che i dango siano i carinissimi esserini tondi che hai postato a fine storia: devo dire che dal nome mi sarei immaginata qualcosa di più appuntito (sarà l'assonanza con dingo?), invece è proprio il contrario. Sembrano figure simpatiche anche i due nonni, malgrado non appaiano direttamente.


Bene, inizio anche io con la prima (e spero non ultima) storia.
Dato che questa è la prima cosa che riesco a scrivere autonomamente dopo più di un anno di vuoto ispirativo, com'è logico non mi soddisfa per niente. Avrei potuto fare meglio in alcune parti, ma ho preferito lasciarla andare nella speranza che apra le porte a un periodo più favorevole per la scrittura. E, sempre per gli stessi motivi, ho preferito iniziare da un argomento e da personaggi con cui ho buona familiarità. Spero di non annoiarvi troppo con la mia monotonia ;)



----------------------------------




Fandom: Kingdom Hearts
Genere: introspettivo/mattone
Rating: giallo
Note: il fandom lo conosciamo tutti, quindi penso di poter tagliare con le spiegazioni. Vi lascio anche scoprire i personaggi nel corso della lettura. Ulteriori note alla fine.



Margine Oscuro




“I parametri vitali sono regolari. Nessuna funzione appare compromessa.
”Dovrebbe già aver ripreso conoscenza.”
“Non capisco. Guarda, il battito cardiaco è lievemente accelerato. Le pupille si muovono sotto le palpebre.”
“Sta sognando?”
“Oppure… “


***



È difficile stabilire se le voci provengano da dentro o da fuori.
Dentro, ovvero nella sua testa: che è pesantissima, come se il cervello fosse annegato nel piombo fuso e poi solidificato, attaccandosi alle pareti del cranio.
Fuori, ovvero la spiaggia: la sabbia fine e fredda sotto un cielo perennemente d’inchiostro. L’unica luce proviene da un astro pallido, una luna forse, o una nana bianca giunta alla fine del suo lunghissimo ciclo vitale.
Una nana bianca.
Una stella morta, esplosa in una gigante rossa una volta bruciato tutto l’idrogeno presente nel nucleo, e infine collassata di miliardi di volte le dimensioni originali, ridotta a uno spettro dell’antico splendore.
Perché gli venivano in mente queste informazioni? Ridicolo, considerato che non riusciva a ricordare nemmeno il proprio nome.
Prima e dopo la spiaggia, soltanto oscurità.
Oscurità dentro, oscurità fuori.
E freddo.
“Non riesco a credere che qualcuno voglia risvegliarti.”
La terza voce è tutta un’altra questione. Si trova decisamente fuori, ed è aggressiva. Lo tormenta. Non ha un corpo distinguibile, ma è un tutt’uno con l’oscurità che avvolge perpetuamente la spiaggia silenziosa. Da quando ricorda l’oscurità, ricorda anche la terza voce. Cioè da sempre.
“Non posso credere che qualcuno senta la tua mancanza.”
Il lato positivo della terza voce è che sembra saperne più di lui, e ogni tanto si lascia sfuggire qualche informazione utile. Risvegliare, ha detto.
Allora è tutto un sogno? E qualcuno è preoccupato per me.
Per deduzione logica, dunque, la voce n. 1 (imberbe ma sicura di sé; ragazzo giovane?) e la voce n. 2 (molto profonda, uomo di mezza età?) si trovano fuori dal sogno. Esiste quindi un collegamento tra la spiaggia nell’oscurità e qualsiasi cosa si trovi oltre. Verosimilmente, se le persone fuori riescono a stabilire un contatto con lui, anche il contrario dovrebbe essere possibile.
Forse è venuto il momento di rispondere al suo tormentatore misterioso.
“Perché no?”
In risposta alla sua domanda l’oscurità si addensa in un punto ai confini della spiaggia, si concentra in un grumo dentro al quale sono appena distinguibili i movimenti di una creatura viva. È da lì che proviene la voce.
“Per essere una grande mente ricordi davvero poco.” Anche questa voce è giovane, ma al contrario della n. 1 vibra per il disprezzo e la derisione. “Ma per te non sono mai stato abbastanza importante, vero? Mi hai buttato via come carta straccia appena non hai più avuto bisogno di me.”
La voce si incrina per un attimo, come vetro sul punto di spezzarsi. Gli suscita istintivamente tristezza. Forse anche l’altro è prigioniero del sogno oscuro ma, al contrario di lui, non ha nessuno che cerchi di riportarlo indietro.
“Dicevi che ero speciale. Che eri orgoglioso di me. Avrei dovuto capire subito che l’unico orgoglio che provavi era per te stesso.”
Orgoglio.
L’affermazione fa agitare qualcosa nel fondo della sua memoria, ma cercare di acciuffare quel ricordo è come nuotare controcorrente. Gli sfugge dalle dita e si fa beffe di lui, mentre i polmoni si gonfiano d’acqua e il peso enorme nella sua testa lo fa precipitare inesorabilmente a fondo.
Scivola sulla sabbia gelida, stringendo tra i palmi delle mani le tempie pulsanti.


***




Saïx aveva studiato a lungo il fascicolo, immobile, lo sguardo concentrato a masticare e digerire ogni carattere stampato. La luce azzurrina proveniente dalle capsule di sospensione galleggiava placida sul suo viso di pietra, rendendo ancora più aguzzi i bordi della sua cicatrice.
Dopo un tempo infinito, che Vexen aveva trascorso camminando su e giù per il laboratorio, lo sguardo del n. VII si posò finalmente su di lui.
“Dieci pagine per concludere semplicemente che un fantoccio è migliore dell’altro.”
“Non migliore” puntualizzò Vexen, infastidito. Non solo Saïx piombava inaspettatamente nel bel mezzo del suo importantissimo lavoro, non solo lo faceva attendere come un inserviente mentre esaminava il suo rapporto – come se avesse avuto l’intelligenza per capirci qualcosa, tra l’altro – ma ora aveva persino l’ardire di minimizzare il frutto prezioso della sua ricerca.
“Più adatto alle esigenze del Superiore. Questo non significa che anche No. II non abbia il suo valore.”
“A me sembrano perfettamente identici.”
Identici. No. I e No. II, identici. Non sentiva una tale sciocchezza da quando Demyx aveva affermato che il Mondo Che Non Esiste era piatto.
Le due future Repliche per il momento erano uguali nell’aspetto esteriore: due corpi privi di caratteri sessuali e tratti somatici. Ma le somiglianze finivano lì.
Chiunque poteva notare che i cicli sonno-veglia di No. II erano più irregolari e irrequieti, o che No. I tendeva a nuotare verso il bordo della capsula in risposta a movimenti esterni – una volta aveva addirittura poggiato il palmo sul vetro mentre Vexen passava a controllare i parametri vitali. Le loro risposte a stimoli di varia natura erano spesso diametralmente opposti: il battito cardiaco di No. I accelerava quando l’illuminazione del laboratorio diminuiva, mentre su No. II la penombra aveva un effetto calmante.
Ancora prima che i ricordi venissero impiantati dentro di loro, le due Repliche avevano sviluppato il nucleo di una personalità indipendente. Era sbalorditivo.
“Come indicato chiaramente nel mio rapporto… “
“È irrilevante.” Saïx gli restituì il fascicolo con un gesto sbrigativo. Per un attimo Vexen ebbe la visione di se stesso che scagliava a terra il n. VII e gli faceva ingoiare il rapporto pagina dopo pagina. Servì a non fargli perdere il controllo, quantomeno.
“Allora No. I riceverà i ricordi del custode del Keyblade. L’altro fantoccio non ci serve. Puoi distruggerlo.”
E prima che Vexen potesse dire qualsiasi cosa Saïx si fece inghiottire da un varco oscuro e scomparve.
“Distruggerlo, dice lui! Che faccia tosta!”
Le pagine del rapporto svolazzarono quando Vexen scagliò via il fascicolo con stizza, e andarono a posarsi ai piedi delle due capsule.
“Distruggere una creatura speciale come te dopo il lavoro titanico che ci è voluto per portarti in vita… è un crimine, credimi.”
I valori che lampeggiavano sul display della capsula di No. II erano leggermente alterati. La Replica si rigirava in modo nervoso tra le pareti di vetro.
“Ma non prestare attenzione alle parole di quel troglodita.”
Le Repliche non potevano capire le sue parole, ovviamente, ma durante i mesi in cui era rimasto rinchiuso giorno e notte a lavorare su di loro aveva preso l’abitudine a considerarle suoi interlocutori. Dopotutto anche degli stimoli verbali potevano rivelarsi utili alla loro crescita intellettiva.
“Non ho alcuna intenzione di distruggere una forma di vita così speciale.” Poggiò la mano sul vetro come aveva visto fare a No. I. Attraverso i riflessi azzurri vide No. II che pian piano cessava di agitarsi, rilassando finalmente i muscoli nell’abbraccio dell’acqua.
“Ti prometto che farò buon uso di te.”


***




“Ienzo, vieni a vedere.”
“Il battito è di nuovo accelerato.”
“Credo che abbia mormorato qualcosa prima, ma non sono riuscito a capire.”
“Even… che cosa ti trattiene lì dentro?”



***



La sabbia inghiotte il rumore dei suoi passi, perciò lo scienziato si accorge di lui solo all’ultimo momento. Sussulta mentre solleva lo sguardo, ma i suoi occhi hanno perso la patina di confusione.
Il fatto che li abbassi un attimo dopo gli fa capire che lo ha riconosciuto.
Finalmente si ricorda di lui.
“Perché?”
Lo incalza prima che l’altro possa riorganizzare i pensieri e prepararsi una risposta artificiale delle sue.
“Sei andato contro gli ordini dell’Organizzazione pur di non distruggermi. Cosa è cambiato dopo? Perché mi hai consegnato a Larxene senza neanche provare a difendermi?”
È pronto a sopportare le sue proteste, a subire i suoi insulti. A sentirsi trattare di nuovo come un oggetto rotto.
Il bastardo ha persone che lo aspettano, da qualche parte nel regno della luce. Non ha la minima idea di cosa significhi essere abbandonati. Perdere il conto dei giorni in un mondo nero, dove precipitano tutti quelli per cui non c’è spazio sotto il sole, con la certezza che nessuno si ricorda di loro, che nessuno verrà mai a cercarli.
La risposta non è quella che si aspetta. In effetti, è un’altra domanda.
“Te lo ricordi? Ricordi il tempo in cui eri ancora nella capsula?”
Curiosità e stupore prendono il sopravvento nella voce dello scienziato. Solleva di nuovo gli occhi su di lui, ed è uno sguardo che schiude la porta a ricordi non voluti.
Si sentiva traboccare di energia quando aveva mosso i primi passi nel Castello dell’Oblio. Vexen lo aveva fatto combattere contro alcuni Heartless evocati dalle carte: i movimenti erano scaturiti in modo naturale, come se avesse trascorso mesi ad allenarsi invece che a riposare nel mondo ovattato della capsula. Colpo su colpo, una danza che aveva la precisione e l’eleganza di un ingranaggio micidiale. Ma una danza non è tale senza qualcuno ad ammirarla, a compiacersi per la sua bellezza.
Alla fine Vexen gli aveva messo una mano sulla spalla, e lo aveva lodato.
“L’oscurità agisce in modo strano” si limita a rispondere, a denti stretti. “A pensarci bene è una beffa. Gli unici ricordi autentici che ho sono quelli del tempo passato con te.”
Si lascia andare anche lui sulla sabbia, ma tiene lo sguardo ostinatamente fisso sulle increspature morbide del mare, appena screziato dalla luce della luna. Sente l’altro muoversi nervosamente al suo fianco, probabilmente agitato dalla sua vicinanza. Potrebbe afferrarlo, in effetti. Fargliela pagare.
La verità è che non servirebbe a nulla. L’unica cosa che il ragazzo cerca, ormai, è una risposta.
“Potrei dirti che non avevo altra scelta. Che Axel e Larxene mi avevano messo con le spalle al muro. Ma immagino che non ti soddisferebbe.”
Lo colpisce l’assenza di scherno nelle parole del suo creatore. Non è la voce sicura e determinata che ricorda.
“Potrei dirti anche che non avevo un cuore. Ma non cambierebbe quello che è successo.”
“No, infatti.”
Si stupisce di non riuscire a provare tutta la rabbia che vorrebbe rovesciare in faccia al suo creatore, nemmeno in questo momento. Forse l’oscurità gli ha risucchiato via anche quella.
Ha risucchiato anche la parlantina dello scienziato, a quanto sembra.
Vexen ha spiegato quello che doveva in modo neutro e oggettivo, verità semplici che la Replica, in fondo al suo cuore (se davvero ne ha uno) già conosceva. Ma non è sufficiente. Non lo sarà mai, e questo lo sanno entrambi.
Si volta quel tanto che basta per spiare l’altro di sottecchi. Anche lo scienziato tiene lo sguardo fisso sul mare, ma i capelli biondi, quasi privi di colore nel bagliore spettrale della spiaggia, nascondono completamente la sua espressione.
Mel mondo dell’oscurità il tempo non ha significato, perciò No. II non sa valutare quanto a lungo la Replica e il suo creatore abbiano guardato insieme l’orizzonte. Il suono della risacca è continuo ed eterno come l’oscurità del cielo, e possiede una qualità ipnotica.
“Il futuro può cambiare, però.”
No. II si riscuote di sorpresa. Non si aspettava che l’altro parlasse ancora. Per la verità non si aspettava che succedesse nient’altro, ormai, in quel loro piccolo mondo.
“Non sarebbe difficile trovare un modo per riportarti indietro, se riuscissi a uscire di qui.”
“E io dovrei fidarmi di te?”
Ma il suo grido si confonde con il suono della risacca e si spegne nell’oscurità. Accanto a lui non c’è più nessuno. Nessuna voce rassegnata, nessuna figura insieme a cui guardare il mare. La sabbia è intatta, fredda. Indifferente.
Il suo creatore non è più lì.
No. II urla, prende a pugni la sabbia. Si squarcia la gola a furia di imprecare contro l’uomo che avrebbe dovuto prendersi cura di lui e che invece lo ha abbandonato per la seconda volta.
Dietro gli occhi spingono appuntite le lacrime, e il ragazzo si abbandona sul terreno, copre la fronte con le mani per non vedere più nulla. Il suono delle onde lo culla placidamente verso l’oblio.
Finché il rumore dell’acqua non assume i contorni di due voci. Lontane, impalpabili, tanto che in un primo momento il ragazzo è convinto di averle soltanto immaginate.
Le parole, tuttavia, sono chiare.

“Non mi sembra il caso di alzarsi così presto, Even.”
“Taci. Abbiamo del lavoro da fare.”



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Note finali: qualcuno potrebbe trovare la scelta forzata, ma io considero il rapporto tra creatore e creatura assimilabile a quello tra genitore e figlio. Dopotutto, uno dà la vita all'altro.
 
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view post Posted on 27/10/2018, 18:50
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Ovviamente dal C.I.M!!! Nello specifico, sezione Arkham

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Buonasera a tutti!!!

@Lady: l'arrivo di Master Xehanort è stato veramente ben scelto, fattelo dire. Con un colpo solo hai collegato l'universo di Descendants con quello di Kingdom hearts nella maniera più classica ed elegante possibile. Dopotutto se Master xehanort ha scombinato la vita dei cattivi di kingdom hearts non vedo come mai non possa aver fatto una capatina anche nel telefilm. Ovviamente anche jafar mi è piaciuto, così come il fatto di aver avuto un figlio con una concubina (in maniera più logica nel suo mondo dove immagino che il visir avesse tutte le donne che desiderava) e non aver avuto una storia d'amore che sarebbe stata strappalacrime ed inverosimile ogni dire su un personaggio che invece da anni a questa parte è un vero emblema di malvagità, classe e brama di potere.
Ammetto che, quando hai scritto questa storia dove il concetto è "ho abbandonato mio figlio in cambio del potere", ho fatto un po' retromarcia sulla storia che stavo scrivendo -che tanto non riusciva a prendere una forma già in origine- ed ho preferito spostarmi su un altro motivo di abbandono.

@Val: oooh, i famosi dango di cui mi parlasti (hai anche il desktop del portatile a tema dango, ricordo male?).
Ovviamente simpatia immediata per Tomoya: tutti, specie i nonni, la fanno facile sul fatto che un genitore debba amare la propria figlia in maniera incondizionata. Ci sono le difficoltà, c'è lo sconforto, e non tutte le persone sono tagliate per fare i genitori o comunque prendersi sulle spalle il peso di crescere ed amare qualcuno. Le domande della piccola Ushio sono bellissime, ti fanno venire voglia di abbracciarla, è una bambina così dolce, rotonda e morbida che potrebbe essere un coccoloso membro della famiglia dango anche lei. Sono veramente un duo carico di dolcezza estrema, i dolcetti di questo contest.

@Lis: commenterò su efp come sempre.



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Ok, adesso tocca a me.
Partiamo dal presupposto che avevo iniziato con tutt'altra coppia. Poi non mi veniva la scena. Poi ho ricambiato coppia, e non riuscivo a fare il punto di vista. Ho fatto e disfatto questa storia almeno tre volte, e credo si sentirà perché non è proprio scritta col massimo della cura e dell'ispirazione. Alla fine ho optato per una coppia dove forse il concetto dell' "abbandono" in quanto tale è meno caratteristico di altre dello stesso fandom, ma almeno ho usato il punto di vista del mio personaggio preferito e sono riuscita a trovare il ritmo giusto per scrivere.
Avviso al pubblico: sono 4 pagine di Word. Vedete voi.



Lost Boys



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Personaggi: Baelfire (sinistra); Henry Mills (destra)
Fandom: Once Upon a Time, stagione 3
Rating: giallo
Avvertenze: nessuna, a parte che è un mattone.


Prima lezione: mai sopravento.
E Felix non è mai stato attento alle lezioni.
Baelfire non ha bisogno di vedere la sagoma del Bambino Sperduto per sentirne la puzza di denti rancidi. Scaglia una freccia tra le fronde degli alberi, e rimane in attesa finché il corpo del suo obiettivo non cade con un tonfo sordo nel fogliame.
Come su un copione già scritto gli altri bambini dell’accampamento escono fuori con le loro armi rudimentali in pugno, scambiandosi fischi e segnali in codice che per Baelfire non hanno alcun segreto. Col primo colpo abbatte Devin, poi due frecce per i gemelli. Un’altra colpisce Ayden di striscio su una guancia, ma è quanto basta per permettere al sonnifero sull’asta di entrare in circolo e far dormire anche lui.
Quando è certo che nessun altro sia di guardia al fortino inizia a correre, supera i Bambini Sperduti ed apre a calci tutte le porte di legno, il cuore in gola.
Sull’Isola Che Non C’È, il tempo è il suo primo nemico.
“Henry?”
Il bambino è sdraiato in un angolo. Non lo hanno legato, ma l’odore inconfondibile di papavero sulle sue labbra gli fa capire che non si sveglierà per le prossime tre o quattro ore. Il battito del cuore è lento, ma regolare. “Tranquillo, Henry. Papà ti porta a casa”.
Non prova nemmeno a svegliarlo, non vi è tempo. Se lo accomoda sul braccio, tenendogli la testa contro la sua spalla per non farlo cadere, poi si lancia fuori dalla baracca e dall’intero fortino, dritto in mezzo al bosco, senza più preoccuparsi nemmeno di non fare rumore.
I suoi piedi trovano la strada senza sforzo, come se non fossero passati oltre vent’anni dall’ultima volta che battevano i sentieri invisibili tra i pini e le querce, tra gli arbusti fioriti di azzurro ed i rovi. L’Isola era stata il suo meraviglioso campo di giochi, e risponde alla sua preghiera: nessun serpente, nessun predatore, nessun pericolo per la vita di Henry. Senza nemmeno sapere come si ritrova a saltare su alberi e tronchi abbattuti, nascondendo persino le proprie tracce.
Vi era un tempo in cui Baelfire sapeva volare. Volare come Peter Pan e i Bimbi Sperduti, con una manciata di polvere di fata e la sua fiducia incrollabile. Con un po’ di sforzo poteva persino superare l’Ombra di Pan in velocità. E, nonostante fosse bravo, aveva sempre preferito le proprie gambe, l’ombra del sottobosco, lo sfidare tutti gli altri bambini a cercarlo per ore in gare di nascondino dove era l’indiscusso vincitore.
Forse, ripensandoci, non aveva mai amato troppo la magia. E, anche il quel momento di paura, col proprio figlio tra le braccia, si sente molto più sicuro con gli stivali nel fango ed i rami bassi degli alberi quasi negli occhi che non fluttuando tra le stelle.
Il suo antico rifugio è ancora lì. Gli arbusti sono cresciuti praticamente ovunque ed i suoi vecchi coltelli sono ormai composti da ruggine, ma questo vuol dire solo che in tutti questi anni nessun altro Bimbo Sperduto si è mai spinto fin lì, nemmeno Felix che ha sempre detto di conoscere l’Isola come le sue tasche bucate. Adagia Henry nel punto meno sporco della grotta, riprendendo fiato mentre le sue gambe gli ricordano che non è più un adolescente con energie infinite. Il primo desiderio sarebbe quello di buttarsi per terra e riposare, ma il tempo è un lusso che non può concedersi se vuole portare via il suo bambino. Deve catturare di nuovo l’Ombra di Pan per scappare dall’Isola, e forse tra le sue vecchie cianfrusaglie vi è qualcosa che può tornargli utile.
Sente la magia prima ancora di voltarsi, una magia fatta di polvere di fata, ombre e sangue che gli fa drizzare i capelli sulla testa.
Un potere che ha sempre guardato con curiosità, ma mai con l’assoluta devozione che ci si sarebbe aspettata da lui.
Quando si volta, la cosa che lo colpisce di più sono i denti bianchi, perfetti anche nella più buia delle notti. “Bentornato, Baelfire”.


***




Diciottomila dollari. Diciottomila dollari ed un maggiolino giallo tutto scassato, chiavi incluse.
Tutto ciò che rimane del suo amore è chiuso in una valigia che ha visto giorni migliori ed in una fiancheggiata su cui i piccioni da oltre cinque giorni si divertono a lasciare i loro escrementi.
Sono passati quasi nove mesi da quando Emma è stata portata nel carcere di Tent City. La sente ancora contro la sua pelle, viva e forte come prima di organizzare il loro ultimo furto; e vi è qualcosa di ingiusto nell’essere lì fuori, immerso tra i vapori dei venditori di caldarroste, mentre lei è lì dentro a scontare per entrambi.
Si è ripromesso di non entrare una seconda volta nella sua vita. Emma merita qualcosa di meglio di un ladruncolo di mezza tacca come lui, uno che dopo tanti anni continua a mentire sul suo passato a cui non crederebbe nemmeno l’uomo più ubriaco degli Stati Uniti.
Lascia le chiavi nel cruscotto ed i soldi nel portabagagli, l’ultimo regalo per quando lei uscirà di lì.
Da oltre le mura della prigione gli sembra di sentire il pianto di un neonato.
Insulta la sua immaginazione, perché non nascono bambini oltre le sbarre di Tent City.
Prima di andarsene, con la quinta bottiglia di birra della giornata ancora in mano, immagina quanto avrebbe voluto un figlio da Emma. Ne disegna un profilo sbozzato nella nebbia, ma uno sbuffo d’aria improvviso la solleva, portandosi via il suo piccolo, stupido sogno.



***




“Ciao, Pan. Sempre in splendida forma”.
“Non posso dire lo stesso di te, Bae” disse l’altro, appoggiandosi con una mano alla parete della grotta. Baelfire sente quegli occhi da furetto attraversarlo da parte a parte. “Sei diventato … grande”.
Pronuncia quella parola con tutto il disprezzo possibile.
Nel mondo reale, quello senza la magia, gli esseri umani vivono convinti che Peter Pan sia un personaggio delle fiabe, un eterno ragazzo che si diverta a suonare il flauto ed a tirare scherzi al malvagio Capitan Uncino. Baelfire ha visto il film della Disney almeno venti volte, e non ha mai capito come si possa distorcere così tanto la realtà dei fatti. “Hai persino un figlio. Chi lo avrebbe mai detto?”
A quelle parole l’arco gli torna tra le mani prima ancora di dare l’ordine alle braccia. “Nessuno. Nemmeno io. Adesso vattene”.
“Non posso, amico mio. Non quando c’è un Bimbo Sperduto che ha disperatamente bisogno di me”
Estrae una freccia e tende la corda, sentendo il cuore martellargli nelle tempie. Pan non fa alcun movimento, ma i suoi occhi scuri sogghignano, sfidandolo ad attaccarlo di petto in un confronto che non potrebbe mai vincere. Ma si tratta di Henry, del suo piccolo Henry, quindi si sposta di lato e si pianta tra il bambino ed il demonio dai denti bianchi. Quello, per tutta risposta, estrae dalla tasca un piccolo oggetto di legno e glielo fa volteggiare davanti agli occhi. “Ha iniziato a poter sentire la musica del flauto, caro il mio Bae. E tu più di tutti sai cosa voglia dire”.
“Lui davvero può …?”
“Oh, sì. Povero piccolo, deve sentirsi davvero solo e abbandonato. Chissà, magari ha un padre così debole, meschino e banale che lo ha fatto nascere in prigione e non si è mai preoccupato di proteggerlo, chi lo sa?”
La mano che incocca la freccia inizia a tremare.
Ha ancora in mente il passato, quegli anni che né il tempo né la birra riescono a cancellare. Quando suo padre aveva preferito la magia oscura all’amore, e sua madre la compagnia di un altro uomo. Quando nel vuoto che aveva nel petto era entrata una musica allegra e felice, piena di vita, una strana melodia che nei primi tempi era stato incapace di distinguere, ancora troppo attaccato alla sua famiglia per rendersi conto di essere stato abbandonato.
Quando nella sua vita vi era la solitudine, ed aveva sentito il suono di un flauto.
Quando era diventato un Bimbo Sperduto.
Pan si solleva di qualche centimetro da terra, e fluttua con pigrizia nella caverna. La punta della sua freccia lo segue, ma Baelfire sa di non essere il cacciatore lì dentro. Sotto la massa di capelli rossi il demonio gli sorride. “Sai, temo di doverti ringraziare. Se non fossi stato un padre così patetico forse Henry avrebbe avuto abbastanza forza da resistermi”.
“Forza …?”
Un secondo ricordo, caldo, gli attraversa la mente come una lama di luce. “Fidati, di quella Henry ne ha in abbondanza”.


***




Emma glielo aveva suggerito tra le righe: a Henry piace la cioccolata calda alla cannella.
Baelfire ha pensato che prendersi insieme una cosa buona al bar sarebbe stato un inizio quantomeno passabile per la sua nuova relazione padre-figlio, ma è chiaro che qualcosa gli sia sfuggito dalle mani.
Henry è un bambino bellissimo. Ha i capelli castani come suo nonno, a cui ha staccato chiaramente anche il naso. Ha le guance morbide ed i lineamenti di Biancaneve, e gli occhi risplendono della stessa luce di quelli di Emma. Per farla breve, a lui non assomiglia per niente.
Ha scelto un tavolino un po’ isolato, abbastanza lontano dal chiasso della gente in fila per i cornetti ma vicino alla parete a vetri quanto basta ad Emma per osservarli da dietro un albero del parcheggio. Il piccolo guarda la tazza di cioccolata, ma senza sorridere; Baelfire gli avvicina anche le bustine dello zucchero, sperando che almeno allunghi la mano per afferrarle, ma il suo silenzio lo uccide.
“Beh … cosa mi dici, Henry?”
Dio, si ammazzerebbe da solo per l’idiozia appena uscitagli dalla bocca. Dopo dieci anni di assenza vede suo figlio per la prima volta e cosa gli dice?
Versando dello zucchero nella propria tazza, nella speranza che il cucchiaino gli lanci un suggerimento per un discorso intelligente, Baelfire si rende conto per la prima volta di non sapere nulla di quell’ometto avvolto in un cappotto che ha visto giorni migliori. Di non avere idea di quali siano i suoi giochi preferiti, o se abbia una squadra di football che gli stia a cuore. Se a matematica vada bene, o se con i numeri sia impedito quanto lui.
“Perché mi hai abbandonato?”
Dritto come uno schiaffo.
Smette anche di agitare il cucchiaino, vagliando persino l’idea di alzarsi e andarsene di lì.
Fuggire è sempre stata la sua soluzione a tutto, in fondo. Da suo padre, dalla magia, da Peter Pan, da Emma, dai propri doveri, dalla sua stessa vita, Baelfire è sempre scappato. Il bambino seduto di fronte a lui ha invece sotto gli occhi i grandi eroi, i “veri” eroi: suo nonno Azzurro è un cavaliere senza macchia e senza paura, sua madre è addirittura la Salvatrice e da quello che sa ha conosciuto anche il vero Capitan Uncino, un grande uomo che non ha nulla da spartire col buffone dai capelli impomatati del film Disney.
Forse quella colazione e quella cioccolata sono solo uno stupido sbaglio.
Forse Henry dovrebbe tornarsene a Storybrooke e trovarsi un qualche eroe che gli faccia da padre. Uncino o Pinocchio sarebbero dei fantastici candidati. “Perché … temo che assumermi le responsabilità non sia il mio punto forte”
Sospira, poi mette da parte la tazza.
Emma capirà.
E, anche se non lo facesse, sarà comunque in grado di farsene una ragione. “Non sono un uomo coraggioso, Henry”
“La mamma mi aveva detto che eri un pompiere molto coraggioso” ribatte il piccolo, incrociando le braccia sul tavolo. Ha un viso intelligente. “E che eri morto facendo il tuo dovere”.
“Suppongo fosse una piccola bugia a fin di bene …”
Unica, santa Emma.
Baelfire guarda oltre il vetro alla ricerca della donna che ama ancora, ma l’unica cosa che riesce a vedere sono le proprie occhiaie, i capelli che iniziano a chiazzarsi di grigio ed un uomo chiaramente fuori posto vicino a quel bambino esile che adesso si stringe al suo grande libro delle fiabe per farsi forza. Senza dubbio non avrebbe mai immaginato di avere per padre un ex Bimbo Sperduto che vive di furtarelli e birra scadente. “… migliore della realtà, dopotutto. Mi dispiace averti deluso”.
Inutile prolungare lo strazio.
Punta le mani al tavolo, poi si alza ed infila velocemente il cappotto. “Non sono l’eroe che speravi”.
“Ma io non voglio un eroe”.
Vede lo sguardo del piccolo per un istante, con la coda dell’occhio, mentre già la sua gamba destra è fuori dal tavolino e pronta ad imboccare l’uscita.
In quelle iridi c’è un guizzo che riconosce. Su quel viso c’è un’ombra, un velo impossibile da dimenticare. È lo sguardo di un bambino solo, sperduto in quel bar davanti ad una figura che ha appena deciso di proseguire per la propria strada senza di lui. “Io voglio solo il mio papà”.



***




Pan fa un passo in avanti, e la freccia schizza dall’arco alla ricerca della sua testa; a quella distanza potrebbe colpire un avversario anche da bendato, ma sull’Isola che Non C’È non sono certo la gravità o la fisica a decidere come e quando colpirà il bersaglio.
Con un movimento fulmineo la mano del ragazzo dai capelli rossi guizza in aria, afferrando la freccia per il manico prima ancora che la punta possa scalfirgli la pelle: è un gesto che Baelfire gli ha visto compiere mille volte, ma che anche dopo tanti anni non smette di sorprenderlo.
Incocca una seconda freccia, ascoltando il battito del proprio cuore dritto nelle orecchie.
“Sei sempre stato un bambino disubbidiente, Bae. Io ti insegno a tirare con l’arco e tu cosa fai? Me lo rivolti contro?”
“Se avvicini ancora la tua faccia a mio figlio ti troverai una freccia su per una narice, sei avvisato”.
“Davvero?”
Un altro passo in avanti. La seconda freccia vola, e ancora una volta l’asta rimane bloccata tra le dita del suo nemico. Incocca di nuovo, frapponendosi tra Pan e Henry.
Gli manca l’aria.
“Mi sorprendi, Bae. Perché non scappi con la coda fra le gambe? Il bambino è un peso, puoi anche lasciarlo qui”.
“Al momento ho un solo peso sulle spalle …”
L’idea di tornare su quell’Isola gli aveva stretto lo stomaco sin dall’inizio. Avrebbe dato via tutto quel poco che aveva pur di non mettere piede lì, dove quel piccolo demonio gioca con le menti dei bambini abbandonati. Se glielo avessero proposto si sarebbe tagliato una mano da solo pur di non andare.
Ma poi nella sua vita era entrato Henry, e tante cose erano cambiate “…e quello sei tu”.
Si era chiesto perfino se non fosse il caso di rimanersene in un angolo del suo appartamento, ad attendere con lo sguardo inchiodato all’orologio che i grandi eroi sconfiggessero il demonio, i Bimbi Sperduti, le Ombre ed ogni cosa, portando in salvo il suo bambino. Si era domandato se non fosse giusto così, consentire alla Salvatrice, al Principe Azzurro, a Biancaneve ed alla Regina di compiere i loro atti eroici senza un ladruncolo da quattro soldi tra i piedi, uno che li avrebbe solo rallentati.
Si era fatto molte domande, ma lo sguardo sperduto di Henry in quel bar gli aveva suggerito la risposta. “Hai sempre avuto il brutto vizio di afferrare le frecce dal manico, Pan”.
Quando il bastardo si accorge del trucco l’inchiostro di calamaro ha fatto il suo effetto. La polvere di fata che lo aiuta a volare perde il suo potere e cade a terra come una mosca, i piedi inchiodati al suolo della caverna. L’inchiostro con cui ha intriso il manico delle frecce non appena arrivato sull’Isola Che Non C’È scintilla debolmente alla luce delle stelle, poi si spande lungo le mani del nemico.
Con un balzo si gira e prende Henry tra le braccia, incurante dello sguardo di fuoco dell’altro. Non ha idea di quanto tempo l’inchiostro di calamaro possa bloccare un essere potente come Peter Pan, ma a lui basta una manciata di minuti.
Un altro predatore si aggira sull’Isola, un cacciatore antico e pericoloso. Gli sembra persino di sentire il ticchettare del suo bastone da passeggio contro le rocce, e non ha alcuna voglia di assistere al confronto tra i due mostri.
Lui ha un altro percorso da seguire.
Una seconda stella a destra, ma è una stella che porta il nome di Henry. “Tranquillo, piccolo. Papà non ti abbandona”.


Zq1A1g4
Peter Pan





N.d.W.: parlare di Baelfire senza nominare Rumplestistkin in una fanfic sull'abbandono è stata un'impresa di proporzioni galattiche. Ovviamente ero partita da loro due, ma Rumple è troppo difficile da gestire come personaggio, quindi mi sono avventurata su un terreno più sicuro ed ho coinvolto Baelfire adulto. C'erano anche Emma e Henry, ma anche lì mi stavo impiccando. C'è da dire che si potrebbe fare l'intero contest usando solo coppie genitore-figlio di OUAT per quante ve ne sono ...
 
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view post Posted on 12/11/2018, 10:57

Etereo

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TI ASPETTAVO PER ANDARE A GIOCARE A PALLONE


Il vestito gli vestiva largo, era quello che suo cugino che aveva utilizzato per un fungerle a sua volta passatogli dal padre, era più robusto di lui nonostante avessero solo pochi mesi di differenza, nonostante fosse più grande di qualche mese del suo cuginetto.
Il suo completo, buttato compostamente sul letto, non lo vestiva da un po' e si era reso conto solo quella mattina che gli stava stretto, non lo indossava da due anni, dalla comunione di suo fratello minore, aveva 15 anni e sua madre lo aveva comprato nuovo a tutti e tre. Il suo era un abito blu scuro e insieme la camicia che abbinava alla cravatta e al fazzoletto da taschino, purtroppo nel frattempo era cresciuto di parecchi centimetri, le spalle si erano allargate, il collo era più possente e il torace più muscoloso, quel vestito passò a suo fratello minore che ancora lo lasciava largo nel suo corpo minuto.
Erano tre maschi, e si passavano 5 anni, sia con il maggiore che con il minore, e passarsi i vestiti non era niente di nuovo, fin da piccolo aveva messo i vestiti smessi di suo fratello maggiore e il piccolo, aveva indossati i suoi ormai logori.
Avrebbe voluto comprare un vestito nuovo per l'occasione, un vestito che sarebbe venuto bene nelle foto e non sfigurasse accanto a quello nuovo della fidanzata, ma la ragione prese il sopravvento e decise di risparmiare i soldi, le priorità da un anno a quella parte erano drasticamente cambiate.
Quel giorno avrebbe battezzato suo figlio.

Aveva compiuto 17 anni due mesi prima e aveva festeggiato in un corridoio d'ospedale, insieme alla sua ragazza che strillava per il dolore, voleva entrare in sala parto insieme a lei, ma la sua fidanzata, di un anno più piccola, lo aveva implorato di lasciar entrare sua madre. Avrebbe voluto veder nascere suo figlio, ma capiva perfettamente come si sentiva, anche lui aveva avuto bisogno di sua madre in diverse occasioni in quel ultimo periodo.
Lui e suo figlio erano nati lo stesso giorno, a 17 anni esatti di distanza.
Era un bel bimbo di 2 kg e 700 grammi, i medici avevano detto che era un po' piccolo ma non tanto da preoccuparsene, sua madre lo aveva rassicurato che tutti e tre loro erano nati al di sotto dei 3 kg, era genetica.
Lo avevano chiamato Mike, solo Mike, non era il diminutivo di nessun altro nome. Lo avevano trovato un nome simpatico, per niente classico ma non eccessivamente strano da destare scontento in futuro. Era un nome simpatico, allegro.
Mike.
Di notti insonni da allora vissute parecchie, aveva iniziato a lavorare in un bar, e faceva i turni con i suoi colleghi, la sua ragazza lavorava in un forno, e cercavano di arrangiarsi come meglio potevano. Erano una di quelle coppie fortunate che avevano i genitori a sostenerli e spesso il piccolo rimaneva con loro per qualche ora quando non riuscivano a organizzarsi con i turni.
Non era semplice, ma ci stavano riuscendo, stavano lottando con le unghie e con i denti per riuscirci e le piccole risa del bambino, i suoi piccoli piedini e le manine che si muovevano per cercare i capelli della mamma e stringerli, tirarli e metterli in bocca sporcandoli di saliva.
La sua fidanzata aveva un simpatico vestito giallo, molti voulant e pezzi di pizzo e faceva facce buffe per cercare di farlo ridere il più possibile.
«Bel vestito» lei alzò gli occhi, e gli scappò un sorriso.
«Vorrei poter dire lo stesso»
Lui si guardò nello specchio appeso alla porta.
«Sto davvero tanto male.» lei gli lasciò il bambino, e aprì si portò nella stanza accanto, quando tornò gli consegnò un vestito nuovo di zecca, con il cartellino ancora attaccato.
«Tuo fratello mi ha detto di darti questo, dovrebbe starti bene».
Ci mise pochi minuti ad indossarlo. Un competo grigio fumo, sagomato, con una camicia Borgogna abbinata a cintura e pochette.
Era già un paio di giorni che cercava di trattenere le lacrime, ma suo fratello aveva deciso che era arrivato il momento di farlo piangere. c

Da quando aveva scoperto che sarebbe diventato padre, superato la sorpresa e il panico iniziale, si era dovuto rimboccare le maniche.
La sua testa stava per implodere da tutte le notizie che riguardavano il bambino e le coppie, la famiglia e tutte le altre informazioni ormai necessarie per il futuro. La sua testa era satura, ma in un angolino, i pensieri iniziavano a farsi largo.
Non pensava a suo padre da anni, ricordava il giorno in cui suo fratello maggiore gli aveva intimato, ordinato e costretto a smettere di pensare a suo padre, smettere di piangere e crescere. Era stato duro con lui, ma gli era servito, non pensava a lui da 5 anni, erano 5 anni che suo padre se ne era andato.
Ricordava molto bene quel giorno, sua madre era appena passata a prendere lui e i suoi fratelli, dovevano passare a casa per prendere le borse da calcio e andare al campo dal padre, si era offerto di diventare allenatore quando i suoi ragazzi si erano iscritti. Da tre anni tutti i martedì, i giovedì, sabato mattina e le domeniche in cui c'era la partita quell'uomo era lì, in piedi a sorridergli, abbracciarli, consolarli quando perdevano e lodarli quando vincevano. Dalla panchina sorrideva alla moglie che si riempiva di borse, buste e robe varie.
Anche quel martedì pomeriggio la routine non cambiò.
Andarono a casa, se non fossero stai in ritardo avrebbero visto che mancavano alcuni oggetti che da 15 anni erano lì, se si fossero fermati per andare in bagno si sarebbero resi conto che mancava uno spazzolino da denti, se sua madre fosse andata a prendere lo scialle che voleva mettersi visto il vento che si era alzato quella mattina si sarebbe resa conto che mancavano delle cose dalla loro camera da letto.
Ma non fecero nulla di tutto questo.
Corsero a prendere le borse e risalirono in macchina, diretti verso il campo.

Ci misero 15 minuti, 15 minuti in cui si alternavano risate e litigi tra i tre fratelli.
Erano gli ultimi 15 minuti in cui aveva avuto un padre.
Arrivati al campo videro tutti con i giubbotti ancora indosso, le borse vicino e sguardi spaesati.
Tutti i genitori si rivolsero alla donna appena arrivata per sapere che fine aveva fatto il marito.
Solo un po' di ritardo aveva detto.
Dopo 35 minuti e svariate telefonate senza risposte decisero che l'allenamento era ufficialmente annullato.
Tornarono a casa e ci furono altre chiamate senza risposta, niente a lavoro, niente al bar che era solito frequentare.
A casa pian piano le cose saltarono agli occhi, alcuni vestiti mancanti, degli oggetti a cui prima non faceva nemmeno caso.
Non c'era nessun tipo di biglietto, niente nella segreteria telefonica.
Non ci mise molto a comprendere ciò che era accaduto.
Chiamò immediatamente il migliore amico di suo marito, era certa che almeno lui sapesse cosa fosse successo.
-Mi spiace...-



Teneva in braccio la bambino, accanto alla sua ragazza, il prete versava l'acqua santa sul capo del bimbo, nel mentre s'immaginava il bimbo giocare, crescere, dormire e diventare più alto di lui.
In quei pochi mesi, si era sentito dire più volte che era un buon padre, aveva il terrore in ogni mossa, ma anche sua madre, con uno sforzo immenso nel parlarne, gli aveva fatto capire che non avrebbe dovuto fare gli errori di suo padre, spesso si chiedeva se mai lo avrebbe rivisto. Sapeva cosa gli avrebbe detto.
-Sono un padre migliore di te.-
E lo era, e lo sarebbe stato per sempre.
Suo figlio non avrebbe mai aspettato suo padre in un campo da calcio vuoto, pronto a giocare, non avrebbe dovuto contare solamente sulla sua forza e su quella dei fratelli, se mai un altro figlio sarebbe venuto al mondo, non gli avrebbe mai fatto da padre.
Suo padre lo aveva abbandonato era una cosa che doveva accettare, ma lui sapeva che non avrebbe mai fatto gli stessi errori, rimanendo accanto a suo figlio fino alla fine dei suoi giorni.
 
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view post Posted on 12/11/2018, 12:20
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Grande, Grosso e Rosso

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Vorrei cortesemente scusarmi se non ho ancora letto tutte le storie ma ho avuto un po' di beghe burocratiche con l'università questo primo mese. Adesso dovrei aver risolto tutto e rimontare sul fronte come i Sovietici dopo Stalingrado. Per il resto, enjoy la storiella e alla prossima. Ciao.


Verso l’infinito…



Genere: allegro-comico, credo lo sia abbastanza
Fandom: Toy Story (2)
Personaggi: Non-Buzz Lightyear ; il Malvagio Imperatore Zurg.
Rating: Verde

-Forza papà!- esclamò, saltellando sul posto con le mani alzate.
-Questa sarà una lunga figliolo!- replicò il malvagio imperatore Zurg, sollevando il suo “cannone a raggi ionizzanti” per fargli un altro lancio da maestro.
-Prova questa!- lo avvertì, prima di sparare.
Immediatamente Buzz scattò all’inseguimento, zigzagando tra gli ostacoli quali alberi, fosse e terreni scoscesi, che per lo space rangers erano ben poca cosa.
-Ecco la prendo!- esclamò, lanciandosi in aria e afferrando al volo il proiettile.
-Buzz NO!
Ma lo space rangers realizzò troppo tardi di aver commesso un passo falso, spingendosi troppo oltre il bordo di quel “marciapiede” che lo teneva lontano dalla zona di traffico dei veicoli pesanti. Nessuno circolava nell’esatto momento in cui atterrò sull’asfalto, ma dopo aver rimbalzato per diversi centimetri in mezzo al nulla più assoluto la questione era meramente momentanea. La luce arancione sul camminamento dei pedoni erano già gialla.
-Papà!- gridò Buzz rimettendosi in piedi e iniziando a correre verso il marciapiede, sperando di raggiungerlo prima di essere investito dal traffico.
Zurg era lì sul bordo. Lo space rangers si sentiva già più sicuro nello scorgere la figura paterna. Gli sarebbe venuto incontro e l’avrebbe sollevato oltre il marciapiede e…
Ma l’imperatore gli diede le spalle e corse via.
Buzz si arrestò nel mezzo della zona di pericolo, semplicemente sconvolto. Dal nulla la distanza tra tra lui e la sua salvezza divenne incolmabile. Anche se avesse corso fino ai limiti della sua forza non sarebbe mai arrivato in fondo, e nessuno gli avrebbe teso la mano verso la salvezza.
Per la seconda volta suo padre l’aveva abbandonato, anche dopo che si erano ritrovati dopo tanto tempo, e dal nulla. Alla prima difficoltà gli aveva voltato le spalle e l’aveva lasciato lì, in mezzo al nulla.
Buzz non riusciva a spiegarsi perché mai un genitore potesse essere codardo a tal punto. Il suo senso di lealtà dov’era? Perché il rimorso non lo scuoteva dalle sue scelte? Avrebbe urlato al cielo chiedendo perché, in nome dell’intera galassia, suo padre l’aveva abbandonato se solo ne avesse avuto la forza morale. Ma poi si ricordò che suo padre era il malvagio imperatore Zurg, nemico giurato dell’Alleanza Galattica che desiderava riunire tutti i mondi sotto il suo dominio. Di che si sorprendeva ora, dopo aver passato un’intera vita a combatterlo? Sarebbe stato forse rose e fiori? Difficile. Poteva anche implorare suo padre e chiedergli perché l’avesse abbandonato, ma non gli avrebbe mai dato una risposta.
No, suo padre era il male, e nella sua piccola debolezza di generosità e desiderio di contatto aveva finito per condannarsi a morte. Zurg aveva vinto.
Con lentezza lo space rangers volse il capo verso i veicoli in fila, lontani ma massicci e con i motori che ruggivano funesti, pronti a passargli sopra senza rimpianto. Attese contando i secondi che precedevano la sua fine. La luce gialla brillava ancora. Uno… due… tre… quattro… cin…
-BUUUUUUUUZZZZHHHHH!!!!
Il verde scattò nello stesso momento in cui che quel grido disperato riscosse lo smarrito essere dalla sua rassegnazione. In tutta la sua maestosa malvagità, il malvagio imperatore Zurg stava percorrendo a velocità massima sulle sue rotelle la strada che lo separava da Buzz agitando un grosso cono arancione sopra la testa. Capendo al volo che quel segnalatore erano l’unica cosa che gli avrebbe impedito di essere schiacciato Buzz riprese la suo corsa implacabile, sentendosi leggero come una piuma ora che vedeva che il genitore non gli aveva voltato le spalle. L’aveva protetto, voleva salvarlo, spalla a spalla come avrebbe dovuto essere.
Zurg riuscì a calare il cono su entrambi appena in tempo per evitare una dolorosa collisione con i veicoli di passaggio, che passarono loro a fianco suonando pesantemente i loro segnalatori di pericolo.
-Sapevo che non mi avresti abbandonato!- esclamò con gioia lo space rangers.
-Non lo farei mai ora figliolo. Il tempo della guerra è passato- replicò con fermezza Zurg -Ora, perché non ci tiriamo fuori dai guai come sappiamo fare benissimo?
-Ben detto papà. Verso l’infinito…
Un camion passò proprio in quel momento spingendo da parte il cono e scivolando sopra i due senza toccarli. Buzz ebbe guisto il tempo di notare un filo pendente nel retro del veicolo prima di afferra la mano di suo padre e protendersi verso di esso -… e Oltre!
 
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The acid Queen in a psychedelic scene

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@Pepper: ero convinta che per questo mese fosse finita così, invece la tua storia è stata una bella sorpresa in questa mattinata libera :)
Un piccolo spaccato di vita quotidiana dove i protagonisti non hanno nome, ma non importa, perché potrebbe trattarsi di chiunque di noi: è davvero facile immedesimarsi nel protagonista di questa storia e provare i suoi sentimenti, l'orgoglio per il figlio e la tenacia nel farsi in quattro per garantirgli un futuro, il dolore per l'abbandono subito e la determinazione a diventare un padre migliore del proprio.
Mi è piaciuto tanto come hai raccontato l'abbandono del padre del protagonista, senza dirlo esplicitamente ma facendolo notare dagli oggetti mancanti, dalle telefonate preoccupate, dal "mi spiace..." del migliore amico...
Se posso dare un piccolo consiglio, a volte il testo mi è sembrato un po' carico di informazioni date tutte insieme in una sola frase, infatti ci sono diverse frasi lunghissime e piene di incisi che possono risultare faticose da leggere. Prova a spezzettare di più con la punteggiatura, il ritmo della storia ne risentirà in modo positivo :)
Complimenti comunque, mi è piaciuta molto :)

@white: per completezza lo scrivo anche qui: storia commentata su efp, dove commenterò anche le successive :) Mi ha fatto piacere leggere qualcosa su OUAT.

Avviso a tutti i partecipanti, oggi è l'ultimo giorno del primo mese, domani white posterà il tema della sua tornata... stay tuned!

EDIT:
@Daniel, ho postato contemporaneamente a te XD Ho recuperato anche la tua storia, che dire, adoro Toy Story perciò l'ho letta con grande piacere. Ammetto però di aver visto solo una volta il secondo film, quindi mi sono ricordata solo leggendo che in effetti c'era un secondo Buzz Lightyear, anche se ricordo ancora come se fosse ieri il salto che feci al cinema alla battuta "sono tuo padre": ero da poco diventata fan di Star Wars perciò la citazione mi emozionò da morire.
Per un attimo sono stata convintissima che Buzz si sarebbe lasciato schiacciare dalle macchine per la disperazione, ma ho esultato al ritorno di Zurg: mi fa piacere che ci sia un lieto fine tra i due!
E la citazione Verso l'Infinito e Oltre non poteva mancare, mi emoziona e commuove ogni volta :)
 
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Grande, Grosso e Rosso

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A proposito, la mia storia la si può commentare direttamente su EFP, l'ho aggiunta anche lì.
 
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Blue Eyes Whitemushroom

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@ Dani: ti commento direttamente su efp, così aumentano anche le visualizzazioni

@Pepper: molto bella come storia. Non hai scelto un fandom ma nemmeno un universo da te inventato, ti sei buttata di testa nella realtà di tutti quanti i nostri giorni. Devo dire che è una novità per tutti noi, e questo mi rende ancora più felice che tu abbia deciso di unirti, qualcosa di diverso ed originale non può che fare piacere. Hai dato modo a tutti noi di immedesimarci in questo padre (ma anche in questa madre) senza distinzioni, raccontando una storia che potrebbe svolgersi sotto il nostro naso o nelle nostre vite da un momento all'altro. Un genitore che da un momento all'altro sparisce, senza un perché, rivissuto nella sofferenza del figlio che impara ad essere padre a sua volta: è una storia molto bella e toccante, così come quelle immagini dei fratelli che si passano i vestiti che è successa in qualsiasi famiglia.


Domani posterò il titolo del nuovo contest, probabilmente lo farò a metà pomeriggio / di sera, quindi vi chiedo un pochino di pazienza.

Roxo, tu manda i voti a Syris ma, per sicurezza, tieni comunque in mente chi hai votato.
 
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view post Posted on 12/11/2018, 22:17

Etereo

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Grazie per i complimenti e i consigli Diciamo che ho anche cercato di rimanere sul "classico", passatemi il termine, visto che non conoscevo molto. Ora vediamo di migliorarci pronti per il prossimo mese.
 
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view post Posted on 13/11/2018, 00:28
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L'Uomo Citazione

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Wow gente, vedo che siete stati prolifici! Vorrei davvero dilungarmi in commenti ma, come sempre, a difesa della segretezza del voto dovrò astenermi momentaneamente. Sappiate solo che siete riusciti a tirare fuori proprio quel che volevo dal mio input!
E beh, ho avuto un mese un po' turbolento dovendo sbrigarmi per la laurea, ma una piccola storiella sono riuscito a farla!

1° Tale: Hero shattered
Personaggi:
Giovanni
Capopalestra di Smeraldopoli, a Kanto. Specializzato nel tipo Terra. In realtà dietro questa figura si nasconde il capo della terribile organizzazione criminale nota come Team Rocket, flagello della regione di Kanto, e non solo, in tutti i media in cui è stato trasposto Pokémon. Sebbene sia crudele, spietato e calcolatore, persino lui nasconde una sorta di morale e degli affetti.

wzaHuCI

Silver
Rivale del giocatore nei giochi Pokémon Oro, Argento, Cristallo e nei remake. Nonostante le poche trasposizioni in altri media (la migliore delle quali è nel manga Pokémon Adventures), tutti lo ricordano come il rivale più “feroce”: ossessionato dalla forza come unica ragione di vita, odia la debolezza e l’essere sconfitto. Affrontando il giocatore, capirà che c’è qualcosa che gli manca, e cose più importanti dell’essere migliori degli altri.

O37AeAc

Fandom: Pokémon, nello specifico i giochi (Avrei preferito usare il manga, ma mi sarei dilungato troppo lì per il poco tempo rimastomi)
Rating: Verde



THE DAY YOU RAN AWAY



“Cosa vuol dire che te ne stai andando?!”
L’uomo con indosso il pesante impermeabile girò appena la testa. Nonostante l’oscurità e la larga falda del cappello, Silver poté vedere le piccolissime pupille dell’uomo che lo guardavano con sguardo contrito. Non era quello, si ripeteva, non era quello il vero sguardo del padre che ammirava tanto: lo sguardo di un condottiero imbattuto, di un veterano del campo di lotta, quello sguardo sprezzante e canzonatorio che riservava alla maggior parte degli sfidanti della Palestra di Smeraldopoli, che venivano a sfidarlo senza la minima preparazione per la batosta che gli avrebbe dato. Né lo sguardo eccitato, quasi sadico che mostrava davanti agli Allenatori che riuscivano a stuzzicare il suo interesse.
Silver era rimasto sempre rapito da quelle lotte, per quanto non gli fosse possibile andare spesso a vedere suo padre a lavoro. Ma ogni singola volta, più delle mosse che i contendenti si scambiavano, delle esplosioni e degli schianti che avrebbero fatto esaltare qualunque ragazzo della sua età, impedendo di notare qualsiasi altra cosa, Silver ammirava più di tutto l’incredibile fiducia in se stesso del Capopalestra Giovanni. Nessuno, salvo i Superquattro, era mai riuscito a batterlo, o almeno Silver non aveva mai visto nessuno avere successo nell’ardua impresa.
Nessuno, fino a quel giorno. Il giorno in cui aveva scoperto tutta la verità, e tutte le bugie nascoste perfettamente nella sua vita.
C’era un motivo se, fin da piccolo, la sua famiglia era vissuta isolata in una villa, lontani da tutto. C’era un motivo se gli era permesso raramente uscire di casa ed andare a vedere gli incontri del padre, se studiava con un tutore, se possedevano più denaro di qualsiasi altra famiglia di un Capopalestra.
Perché la dura e fredda verità era che Giovanni, Capopalestra della città di Smeraldopoli, era il capo della più grande organizzazione criminale di Kanto, il Team Rocket. E quando sei immerso fino alla testa nella criminalità, non lasci la tua famiglia a portata dei tuoi nemici. Quel sorriso, l’unico sorriso senza una sfumatura di scherno che il padre sapeva fare, e che rivolgeva solo a Silver e sua madre, aveva sempre avuto un qualcosa che Silver non riusciva a cogliere. Ma ora lo capiva: era preoccupazione, non per il futuro del figlio, isolato dal mondo, ma per il rischio di perdere il potere guadagnato negli anni se uno di loro due fosse caduto in mano ai suoi avversari della malavita.
E tutto era successo per un ragazzino, appena tre anni più grande di lui, che aveva sconfitto il padre, non una, non due, ma ben tre volte, e mandato in aria i piani del Team Rocket.
Quando la madre lo aveva costretto a svegliarsi a notte fonda, vestito e buttato nella limousine con lei per scappare, aveva dovuto sforzarsi per tenere a freno le numerose e sfaccettate emozioni che stava provando per la prima volta. Ma non fu che un’inezia rispetto a quando, presa dal senso di colpa, la madre gli aveva raccontato tutta la verità. Da dove veniva il loro denaro, la casa, tutto, tutto, TUTTO!
E lì, in mezzo al tumulto di pensieri, uno si era prepotentemente elevato sopra agli altri.
“Devo trovarlo.”
Uno zaino preparato alla rinfusa e di nascosto era tutto ciò che si era portato dietro mentre si dirigeva verso un varco per Johto, nascosto e sconosciuto a tutti. O quasi.
Lui e la madre sarebbero dovuti passarci due giorni dopo, una volta che suo padre avesse attirato l’attenzione della polizia, per poi far perdere le sue tracce. Ma per Silver era impossibile capire quel gesto. Per lui solo una cosa importava.
Sapere perché il padre si arrendeva.
Perché aveva perso.
Perché lo abbandonava.
“Tu sei il più forte! Potresti soggiogare di nuovo la regione con uno schiocco di dita! Perché non fai vedere a quei deboli che ti danno la caccia chi comanda davvero?”
A Silver non importava che il padre fosse un criminale. Lui era il più forte, e la forza era tutto. Era cresciuto con quel modello, e non riusciva a comprendere altro.
“Silver, non saresti dovuto venire qui. Non sei al sicuro.”
“Al diavolo, non mi interessa niente! Dimmi solo come è possibile che tu abbia perso! Ti hanno attaccato più persone in quella lotta in Palestra, vero? La polizia ha truccato tutto, o i Capopalestra sono intervenuti, o, o...”
Le parole gli morirono in gola quando il padre, perentorio, scosse la testa. Silver sbarrò gli occhi.
Giovanni sospirò, osservando lo sgomento e la delusione del figlio.
“Se non accetti la sconfitta non farai mai progressi. Ora devo stare un po' da solo affinché un giorno io possa ricostruire un'organizzazione ancora più grande."
“...E tu ti definivi il più forte?” iniziò urlare Silver, mandando a quel paese la segretezza, “Tutte quelle persone che ti temevano, che ti veneravamo...che ti ammiravano...come me. E tu vai a perdere contro un ragazzino?!”
“Umpf, la forza in battaglia non serve a niente se non hai un talento cruciale...”
Silver lo fissò con sguardo perso e titubante. Giovanni riprese.
“Unire le forze di tante persone per generare una forza gigantesca. Questo vuol dire "organizzazione"...Questo è il POTERE di un'organizzazione! Io non sono mai stato in grado di sfruttare al meglio le forze dei miei subalterni! Ma un giorno ricostruirò il Team Rocket!"
Silver abbassò la testa. Iniziò a tremare, serrando i pugni fino a farsi diventare bianche le nocche, più di quanto il freddo di quella notte non avesse già fatto.
“Senti, papà! Io non capisco! Non capisco proprio di che stai parlando!"
“Arriverà il giorno in cui capirai. Vedi Silver, ci sono cose che, da solo-”
“E non voglio nemmeno capirlo! Io non sarò mai come te, papà!” sbraitò Silver. Giovanni fermò la frase a metà, interdetto. Dietro le lacrime, gli occhi grigi del figlio emanavano una freddezza che mai si sarebbe aspettato da lui. Alzò una mano, come per fermarlo e farlo calmare, ma Silver continuò, preso da una furia cieca.
“Non mi metterò a fare il dittatore solo perché posso contare su una schiera di seguaci, per poi essere una nullità da solo! Io diventerò fortissimo! E lo diventerò DA SOLO! Da solo! NON PERMETTERO’ A NESSUNO DI DARMI DEL DEBOLE!"
Giovanni aprì la bocca per ribattere, ma si fermò. Ora capiva il significato di quegli occhi. Quel figlio che tanto lo ammirava, oramai, non c’era più. Come il Team Rocket. Quello poteva sempre ricostruirlo. Ma la fiducia del figlio in lui, quella...quella l’aveva persa, forse per sempre, i pezzi rotti sparsi al gelido vento che spirava dal Monte Argento.
Ah, ora che ci pensava...non era lì che sua moglie gli aveva chiesto se voleva un figlio? E non era da lì che aveva scelto il nome per lui?
Lo aveva dimenticato, dopo le notti insonni passate preparare, attuare e nascondere i suoi crimini.
Sì, si disse, ormai non meritava più l’affetto del figlio. Lo aveva perso unicamente per colpa della sua brama di potere, ed era l’ultima persona a meritarsi il perdono, su quella terra.
Giovanni si girò, dando un silenzioso addio a Kanto ed alla famiglia, e si incamminò verso il tunnel.
“Sì, vai via, vattene! TANTO IO TI ODIO!” continuò a sfogarsi Silver, inginocchiato, prendendo a pugni il terreno:“Diventerò il migliore, il Campione della Lega Pokémon, vedrai, e quando verrai a scusarti con me, non ti degnerò di uno sguardo! SEI SOLO UN CODARDO CHE ABBANDONA LA FAMIGLIA PERCHE’ E’ TROPPO DEBOLE, ED IO NON SARO’ MAI COSI’!”
Il padre continuò a camminare, sparendo nell’oscurità.
“AAAAAAAAARGH! TI ODIO, TI ODIO, TI ODIO, TIODIOTIODIOTIODIOTIODIO!”
Le urla del ragazzo spaventarono dei Murkrow appollaiati su un albero, facendoli volare via, e in un turbinio di piume color notte il lamento di un figlio si perse nel vuoto.
 
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